sabato, aprile 25, 2020

Accadde nel Cusio - Le rogazioni e il drago processionale


Fino ai primi anni Sessanta nel Cusio, particolarmente in quelli rurali, il territorio delle singole parrocchie veniva percorso da processioni salmodianti, in cui il parroco, le confraternite e i fedeli invocavano Dio e i santi per preservare da malattie, calamità, carestie e ogni sorta di male le comunità, le loro colture e gli animali. Queste itineranze sacre erano dette rogazioni, un rito antichissimo, che si svolgeva in due periodi primaverili. Le rogazioni maggiori avevano luogo il 25 aprile, festa dell’evangelista Marco, rifacendosi ai riti pagani detti Ambervalia che, nel mondo precristiano erano rivolti agli dei, in particolare Cerere, con lo scopo si propiziare un buon raccolto, e si svolgevano appunto nel giorno corrispondente al 25 aprile. A metà del IV secolo papa Liberio trasformò la cerimonia in un rito cristiano. Tuttavia le celebrazioni pagane continuarono a essere  poste in atto, nonostante i divieti dei vescovi locali. La diocesi di Vienne, nel Delfinato francese, fu la prima ad attuare le rogazioni con regolarità; nel 511 papa Simmaco codificò il rito, contestualmente fu introdotta l’astensione del lavoro anche per la servitù, e disponendo tre giorni dedicati alla preghiera e al digiuno. Gregorio Magno, infine, inserì il rito nel suo Sacramentario, definendolo "Litania maggiore". Lo scopo della funzione era quello di invocare Dio, la Vergine e i Santi con formule e richieste per ottenere liberazione da ogni tipo di male, e la protezione del territorio e delle campagne, comprendendo anche scopi   propiziatori per la fertilità. Sempre verso la fine del V secolo nel Delfinato, dopo una serie di calamità naturali,  furono introdotte altre rogazioni, dette minori, consistenti in tre giorni di processioni di ambito campestre, che si svolgevano nelle tre mattine antecedenti la festa dell' Ascensione. Dalla Francia il rito si estese, già in epoca carolingia, al resto dell’occidente cristiano, e fu praticato in tutte le parrocchie.
La rogazione, che aveva inizio all’alba, si poteva snodare per diversi chilometri, ed era studiata in modo che tutto il territorio della parrocchia potesse, sia pure a distanza, essere visto e benedetto dal celebrante. In genere il percorso era specificato in documenti parrocchiali e riferito durante le visite pastorali.
Accanto alle rogazioni si sviluppò l’uso di realizzare delle croci coi rami degli alberi potati, adorne di ulivo benedetto, tali emblemi venivano piantati nei campi per proteggerli dalle calamità naturali. Il punto di partenza delle rogazioni era sempre la chiesa parrocchiale, ma ogni giorno veniva seguito un percorso differente, che giungeva fino a un punto prestabilito, un luogo di confine, che sovente era segnato dall’erezione di una cappelletta o di un pilone. Le rogazioni erano anche un atto di ricognizione sacrale del territorio, in cui si toccavano i confini, che venivano segnati, sempre per creare una protezione. Nella diocesi di Novara, in particolare, si inserì una ulteriore ritualità, voluta dal vescovo Carlo Bascapè (1593-1625). Egli infatti diede ordine di realizzare delle croci con la cera derivata dalla fusione del cero pasquale dell’anno precedente, un po’ sul modello degli Agnus Dei. Le piccole croci erano poi collocate nei piloni presenti lungo il percorso delle processioni. La processione era aperta delle confraternite con le loro insegne, seguivano donne, bambini, uomini e, infine, il parroco in paramenti viola. I parrocchiani di Orta, ad esempio, giungevano fino al Monte Barro di Pettenasco e quelli di Carcegna al Barro di Invorio. A fine Seicento, inizio Settecento, i percorsi si ridussero entro confini più vicini. Nei documenti d’archivio parrocchiali si ritrovano più volte le richieste dei parroci al vescovo affinché fosse ridotto il percorso, poiché la gente si disperdeva. A Carcegna il parroco, con molta sincerità, scriveva al vescovo che al Monte Barro arrivavano solo lui e il sacrestano. La processione della parrocchia di Orta, ancora nel Novecento, giungeva fino a Legro, alla cappella di San Rocco.
Le preghiere caratteristiche delle rogazioni erano le litanie dei santi, con la ripetizione dell’invocazione di protezione in direzione dei punti cardinali, quando veniva alzata la croce e il sacerdote pregava: A fulgure et tempestate, A peste, fame et bello, ecc. a cui la popolazione rispondeva Libera nos Domine. Seguiva la messa delle Rogazioni, priva del Gloria e del Credo.
Un “personaggio” importate di questi riti era la raffigurazione del drago, visto come incarnazione di forze demoniache, il dragone rosso di cui parla l’Apocalisse, a cui la donna vestita di sole, raffigurazione della Madonna, schiaccia il capo.
Il drago delle rogazioni era un attrezzo che potremmo definire liturgico, in genere era in metallo, snodato, in modo da potergli far assumere diverse posizioni. Veniva issato su un palo, in modo che potesse essere ben visibile. Il drago rogazionale, chiamato anche “uccellaccio”, aveva una specifica funzione all'interno dell’apparato liturgico, che comunque sempre è un grande apparato scenico. Il drago ancora oggi custodito nella basilica di San Giulio, è uno dei più pregevoli che si conservano in Italia. Un esemplare meno raffinato, ma altrettanto suggestivo, è conservato al Museo di arte religiosa ad Oleggio. Il drago veniva portato in processione, come elemento di forte impatto visivo e simbolico. Durante le rogazioni assumeva una diversa collocazione all'interno del gruppo dei fedeli. Il primo giorno se ne andava baldanzoso ad aprire il corteo, con la lunga coda alzata e la bocca piena di fiori (a Parigi addirittura venivano buttati dolci e fiori nella bocca di questo drago che era in vimini, mentre i nostri sono di metallo). Il secondo giorno delle rogazioni il drago era collocato a metà della processione, aveva un aspetto meno fiero, procedendo con la coda allineata al corpo, nella bocca aveva pochi fiori e fili d’erba.  L’ultimo giorno, quello caratterizzato dalla simbologia del trionfo di Cristo, il drago chiudeva il corteo, la sua coda veniva lasciata a penzoloni, la bocca dai feroci denti era spalancata, priva ormai di fiori, il suo aspetto mogio era l’evidente raffigurazione della vittoria del bene sul male.

Articolo della Dott.sa Fiorella Mattioli Carcano, storico e presidente dell'Associazione storica Cusius, in esclusiva per OrtaBlog.

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